A cura di Benino Argentieri (Specializzando IPR)

La stanza chiusa che dà il titolo a questo film si trova all’interno di una casa che appare disabitata e dalla quale, una volta entrati, non si può più uscire. L’atmosfera è sospesa, clau

strofobica e confinata in un perpetuo temporale che ci accompagna con un continuo senso di inquietudine, fin dalla prima inquadratura: Stella, in piedi su un cornicione, con addosso un vestito da sposa sgualcito, il trucco sbavato, lo sguardo assente, nell’attimo immediatamente prima di lasciarsi cadere nel vuoto. La risveglia il suono insistente del campanello: alla porta c’è uno uomo che afferma di aver prenotato da internet una stanza in casa di Stella, un tempo un b&b.

Presa in contropiede da quell’estraneo educato e dall’aria malinconica, Stella lo lascia entrare nel luogo fisico più intimo, la sua casa. Manda comunque un messaggio al suo ex, Sandro, con il quale ha avuto un figlio. Ma l’arrivo di Sandro fa precipitare le cose…

Quello che all’inizio sembra un altro film del genere home invasion come “Funny Games” o “Panic Room” ci disorienta a questo punto con un cambio di registro. Riuniti i protagonisti, i due ex coniugi si troveranno ad affrontare una resa dei conti forzata ed usciranno segreti taciuti, rancori sopiti e vissuti opposti. Proprio come in una terapia famigliare, c’è anche il paziente designato ovvero il loro bambino, Giulio, che mostra comportamenti patologici dei quali i due genitori si addossano reciprocamente la colpa.

In questo triste ménage familiare, l’estraneo vuole salvare il piccolo Giulio. Forse tutto si risolverà con la confessione del padre e la sua uccisione per mano del figlio, come nel mito di Edipo. Potrà questo togliere dalle spalle del bambino il compito omeostatico e protettivo che si è addossato?

No, uccidere il colpevole designato non cambierebbe nulla: Giulio deve poter vedere anche il ruolo e le responsabilità della madre e riconoscere le proprie emozioni verso di lei, inclusa la rabbia e il dolore dell’abbandono a seguito del suo paventato suicidio, un atto che lascerebbe nel cuore di ogni bambino una indelebile traccia fatta di dolore e sensi di colpa.

La salvezza di Giulio non può avvenire, in questo caso, salvandolo dai suoi genitori bensì aiutando questi ultimi a far riemergere la cura e l’attenzione verso il proprio figlio dalle sabbie mobili dei rancori coniugali. Il punto di svolta è avvenuto quando loro tre hanno dato voce alle loro emozioni, quelle emozioni che, mai comunicate, hanno influenzato decisioni e comportamenti apparentemente inspiegabili, aggrovigliandosi in vissuti di rancore e infelicità. Comunicando, ognuno si è ripreso quello che era suo ed ha conosciuto e riconosciuto la sofferenza dell’altro. In una sorta di intervento strutturale, le pedine tornano a prendere il loro posto sulla scacchiera di questa famiglia: Stella e Sandro devono loro stessi proteggere il loro figlio e tornare ad essere genitori; il piccolo Giulio non deve più prendersi cura dei loro problemi di coppia e può tornare ad essere figlio.

In questo film di Stefano Lodovichi vediamo come eventi drammatici ed intensi della nostra vita sembrano congelarci in un tempo passato e condannarci ad un destino segnato. Ma, come ci ricorda il principio di equifinalità della teoria dei sistemi, le condizioni iniziali non determinano in modo predefinito quelle finali. È possibile cambiare il futuro se cambiamo il nostro passato e qualcosa che è già accaduto può cambiare se cambia il nostro modo di vederlo, sentirlo e raccontarlo. Questo complesso percorso, affrontabile in terapia, è come un gioco di specchi nel quale si guarda e si riflette sull’accaduto dalle angolazioni delle persone coinvolte che hanno così la possibilità di mostrarsi, guardarsi, riconoscersi e validarsi a vicenda, nel ruolo che ricoprivano allora e in quello, diverso, che coprono oggi.