A cura di Simona Fazi (Psicoterapeuta e didatta IPR)
“Funzionare o Esistere?”  è un libro che va letto.
La sua lettura costituisce un’opportunità, per molte ragioni: innanzitutto è un libro che fa pensare. Non deve trarre in inganno il numero contenuto delle pagine, appena 100. Ciascuna di esse è densa di concetti, riflessioni, domande, che si impongono con evidenza, non permettendo al lettore di restarne indifferente o in superficie.
Parafrasando una frase di Herbert Marcuse “…non è un libro che si può leggere per informarsi del contenuto”  (Marcuse,1964)
L’autore, Miguel Benasayag con il suo stile asciutto, fermo ed incisivo, non consente al lettore divagazioni o “scappatoie”. Coinvolge nelle sue tesi e chiama chi legge a definirsi, a prendere posizione….a pensare.
D’altronde non potrebbe essere altrimenti: Miguel Benasayag, è un uomo che ha fatto del pensiero la sua forza, guida e lavoro della sua stessa esistenza. Filosofo e psicanalista franco-argentino, durante la dittatura ha subìto carcere e torture per difendere le sue idee e, in generale, il diritto di pensare.
Questo suo testo affronta la riflessione di come va considerata la vita umana: è esistenza o funzionamento?
La riflessione dell’autore non si limita a mera analisi dicotomica della contrapposizione tra esistere o funzionare, ma si spinge al cuore della conflittualità dialettica tra le due dimensioni.
La riflessione, d’altronde, si pone d’obbligo considerando il prepotente affermarsi di una certa concezione moderna dell’uomo e della sua vita, sempre più incentrata sull’esaltazione delle logiche prestazionali e del potenziamento delle capacità umane volto a ridurre il più possibile i margini di deficit, fragilità ed errori.
Come afferma Benasayag: ci siamo lasciati convincere che più si è competenti e migliori, più si sarà felici.
Anche da ciò si è partiti per iniziare ad omologare la crescita dei giovani secondo questa ottica prestazionale: “ I giovani non hanno più il diritto di essere giovani, sono inseriti da subito nella giostra delle competenze da acquisire, dei risultati da conseguire, con l’imperativo di essere imprenditori di se stessi”.
Dobbiamo opporci al dilagante paradigma della vita considerata come un funzionamento determinato dalla capacità di gestire bene il proprio capitale di competenze e di “informazioni”. La nostra società è ossessionata da una visione capitalista: capitale tempo, capitale salute, capitale umano…., e sta diventando  sempre più sospettosa e squalificante di fronte a qualunque forma di ricchezza non contabile e intensiva.
Anche in virtù dell’importante sviluppo delle tecnoscienze si è entrati in un’epoca del “tutto è informazione”. Si è attratti dall’illusione semplificante che tutto ciò che ci accada possa essere tradotto in dati od informazioni in entrata, da accumulare e saper gestire in modo proficuo e produttivo, perdendo di vista che il dato è immerso in contesti, relazioni “immagini” e narrazioni, fortunatamente imperfetti ed imprevedibili, che gli conferiscono senso e significato.
Sembra essersi dimenticato il fatto che ogni nostro atto è causato in un orizzonte di senso e che al contempo lo rende produttore di senso non “pianificabile”. Una specificità che nessun “performante algoritmo” potrà mai arrivare a sostituire e che fa cadere la falsità di una vita pensata come un insieme di processi misurabili in un tempo esclusivamente lineare.
L’autore afferma che “nell’ideologia dell’informazione e del funzionamento” ovviamente anche il tempo è visto con sospetto, in quanto portatore di trasformazioni, possibili discontinuità non prevedibili ed inesorabile “deterioramento”. Per questo ci si concentra sull’illusione di un tempo da declinare solo al presente. “Il presente è oggi trasfigurato snaturato, defraudato svilito nell’adesione ad una immediatezza permanente. Il dio “istante”, monodimensionale da consumare ancor più velocemente della sua durata, che aberra il presente e lo svuota di ogni sostanzialità e significato”.
E’ infatti “un’ossessione contemporanea quella di guadagnare tempo, senza capire che l’esistenza non è nel tempo, ma produce tempo” in quanto gli conferisce senso e quindi identità.
Da tutto ciò, la pericolosa conseguenza che finché saremo dominati dal mito dell’uomo competente, efficiente e “sempre giovane” vivremo con l’angoscia delle fragilità, dell’insicurezze del tempo e della morte, arrivando così ad alienare il senso stesso dell’esistenza umana.
La riflessione non può che giungere alla stanza di terapia. Alla nostra concezione di che cosa significhi fare terapia, del che cosa va curato. Condividendo la filosofia di Benasayang, reputo fondamentale un assetto terapeutico che rifugga qualsiasi stringente valutazione funzionale del paziente: ciò che va bene, ciò che è disfunzionale, che crea inadeguatezza e che va quindi modificato e corretto.
Avvicinarsi con tale ottica alla relazione terapeutica può rivelarsi molto rischioso, perchè è facile scivolare verso una deriva riduzionista che paragoni la terapia ad una tecnica meccanicistica di eliminazione del problema: aggiustiamo ciò che non funziona e la persona diventerà come gli altri, tornerà ad essere “adeguato” “competente e pronto” al suo contesto sociale e relazionale. In tal senso, non possiamo non considerare il preoccupante successo di certi approcci clinici fondati sull’idea di terapia come riparativa e riabilitativa e/o l’enfasi su tecniche o protocolli standardizzati.
Al contrario, credo in una terapia che permetta di riconquistare le proprie fragilità, senza volerle eliminare o rifuggire. E per questo penso che in terapia si riveli molto più utile promuovere il lavoro quasi opposto all’ottica “dell’aggiustare”: cioè, il lavorare per “smontare” le certezze, le corazze, insinuare dubbi, mettere in discussione l’inutilità del sintomo, imparare a “so-stare” in un tempo che a volte può sembrare fermo, perso, ma in realtà foriero di movimenti.
Il tutto veicolato dall’importanza del risignificare ciò che ci accade o ci è accaduto, attribuendo nuovi significati che conferiscono unicità ed umanità alla nostra storia, con i suoi imprevisti, passi falsi, occasioni mancate, in una parola….con i suoi limiti, o meglio confini umani. Per imparare a non temerli più.
E, poi, da qui ripartire, per far proliferare alternative di scelta verso un disegno futuro che non sarà mai definito o programmabile. Il tutto, sintonizzandosi sempre su vissuti e sentimenti. Alla riscoperta, quindi, della priorità del sentire e non del fare.
Si staglia, quindi, un percorso in cui le fragilità, le insicurezze, le diversità non sono aborrite, ma al contrario enfatizzate, assunte quasi come bussola per ricercare, come direbbe Grossman “…l’umano che è nell’uomo” (Grossmann, 1955).
Giungere alla consapevolezza che la vita è incertezza e non può essere imbrigliata da alcun controllo, tanto meno quello performante di individui che si considerano monadi autoderminate e autodeterminanti. E’ per questo motivo che portare verso un’assunzione di fragilità, paradossalmente rafforza il soggetto. Perché permette di giungere alla consapevolezza che la vita non ci appartiene e non dobbiamo essere spaventati dalla sua imprevedibilità.
Come ben illustrato nelle parole di Benasayag : ”… La vita si fonda sull’alchimia di un indiscusso equilibrio dato dall’incontro di imprevedibilità ed instabilità. Solo una radicata consapevolezza di ciò, fornisce una sensazione di pace e fiducia che accompagna il nostro incedere nella propria esistenza, capace di sedare l’angoscia del controllo e dell’agito performante”.
E’ necessario riportare in salvo il valore della singolarità delle persone, ricche delle proprie diversità, incrinature, fragilità che vivono però in relazione tra loro consapevoli dell’importanza di tutto questo, senza esserne spaventati, ma anzi consapevoli che ciò contribuisce a fornire l’essenza della vita stessa  e “…a recuperare così uno sguardo aperto verso il futuro che sia sempre meno un risultato e sempre più un cammino.”