A cura di Valeria Mignacca (Psicoterapeuta e didatta IPR)

“Ogni famiglia ha il suo linguaggio” 

 “Voi siete l’arco dal quale. come frecce vive,

i vostri figli sono lanciati in avanti

l’arciere mira al bersaglio sul sentiero dell’infinito

e vi tiene tesi con tutto il suo vigore

affinché le sue frecce possano andare veloci e lontane

Kahlil Gibran

CODA (acronimo di Children of Deaf Adults), girato dalla regista Sian Heder, è un ramake del film francese “La famiglia Bleuer”. Mi è capitato di vedere questo film poco tempo fa, casualmente, senza sapere che fosse una pellicola pluripremiata e candidata agli oscar ma sicuramente, nel vederlo, ho pensato che sarebbe stato un ottimo film candidato per la formazione sistemica, proprio per il tipo di contenuti che tratta.

“I segni del cuore” tratta infatti un argomento complesso ovvero l’universale conflitto tra appartenenza e differenziazione nelle dinamiche familiari; tra “affiliazione” e il “sé di diritto”, come direbbe la Lorna S. Benjamin.

È la storia di una famiglia di pescatori sordomuti (padre, madre e due figli), in cui la figlia ormai adolescente, Ruby (secondogenita), interpretata nel film da Emila Jones, è l’unica udente. Questo l’ha resa, fin da bambina, la figlia deputata a fare da ponte e da interprete tra la famiglia e il mondo esterno. Così negli anni la famiglia è andata organizzandosi attribuendo alla ragazza un ruolo centrale, promuovendola ad elemento indispensabile, il perno intorno al quale girano i raggi della ruota. Un ruolo vitale per la famiglia ma che la costringe all’impossibilità di seguire i propri progetti, di svincolarsi senza che emergano sentimenti di abbandono e tradimento. A guardar bene Ruby non è l’unica “vittima” di questo equilibrio. Questa organizzazione ha relegato il fratello maggiore ad una posizione subalterna e anche a lui viene in qualche modo negata la possibilità di affermarsi, come si evince in modo chiaro da un confronto che avrà con la sorella. Entrambi i figli vivono così una situazione simile da posizioni opposte, entrambi, infatti, per ragioni diverse non possono affermare se stessi.

Questo conflitto, presente sia in ciascuno dei membri familiari che nelle dinamiche tra loro, emerge in tutta la sua forza nel periodo adolescenziale, quando Ruby prende delle iniziative che tendono a mettere in crisi l’equilibrio dell’intero sistema familiare, proprio in un momento in cui lo stesso si stava mettendo più in gioco, provando a ri-pensare se stesso. È questo il momento in cui emergono quelli che Boszormenyi-Nagy chiamerebbe i conflitti di lealtà. La ragazza ha, infatti, un grande talento musicale e ha la possibilità di aspirare ad una borsa di studio che però la porterebbe a trasferirsi in un’altra città.  Intorno a questa scelta, attraverso una trama che coinvolge anche altri personaggi esterni al nucleo, si snodano conflitti e incomprensioni familiari, le tendenze omeostatiche e quelle evolutive, l’emergere di sentimenti di credito e di debito, il timore e il coraggio di cambiare se stessi.

Non è probabilmente un caso che il regista abbia scelto proprio il “canto” come passione elettiva di Rudy, quasi ad evidenziare la specificità rispetto alla famiglia, come se la voce diventasse simbolo e strumento stesso di differenza e differenziazione. Allo stesso modo, nella scena dell’audizione finale, i contrasti e le differenze trovano un modo di ricomporsi, un equilibrio grazie al quale si può essere insieme nel riconoscimento e nel  rispetto delle reciproche differenze e specificità.

Attraverso le vicende di una famiglia con disabilità mi sembra che il film tratti in modo intelligente e “delicato” uno dei temi elettivi dell’approccio sistemico: il difficile equilibrio tra lealtà familiare e progetto di vita personale, tra appartenenza e autonomia o per dirla con le parole di Bowen tra “massa indifferenziata dell’io familiare” e  differenziazione del sé.

Qualche giorno prima di vedere il film avevo tenuto la lazione proprio su Bowen con un gruppo di training del primo anno e, in questa occasione, ci eravamo a lungo soffermati sull’ affermazione: la differenziazione  è la capacità di prendere posizione in un sistema emozionale intenso, di dire “io” quando gli altri spingono per  il “noi”.

Beh, mi sembra che questo film renda bene il senso della frase su cui ci eravamo interrogati con il gruppo, di questo “tiro alla fune” interno.

Ruby  si fa portavoce, quindi di questo conflitto interiore riguardante lei ma anche i suoi familiari trovandosi così sospesa tra il mondo rassicurante ma isolato della sua famiglia e il mondo esterno desiderato quanto temuto, così come i suoi genitori sono sospesi tra il riconoscere alla figlia il suo diritto di essere se stessa e il loro bisogno di averla con se. Non manca nel film un riflettore puntato anche su alcune dinamiche “tipiche” delle famiglie con disabilità come l’isolamento e auto-isolamento, la difficoltà di integrazione, l’unione e la coesione interna che però a volte, in queste famiglie, può diventare uno scudo protettivo a difesa di un esterno vissuto come estraneo, minaccioso e giudicante.

Il merito del film sta, a mio parere, nel trattare temi tanto complessi senza scivolare in toni drammatici ma mantenendo una sorta di “leggerezza” grazie alla trama fluida e alla simpatia dei personaggi, con una risoluzione che può apparire, ad un occhio più critico, ideale quanto forse un po’ “semplicistica” ma che comunque arriva al centro, colpisce il bersaglio e questo, in fondo, è l’importante  per un film  “colpire il bersaglio” qualunque traiettoria utilizzi la freccia per arrivare a far vibrare le corde di chi vede e di chi ascolta.

Un finale che esalta, a mio parere, il coraggio di cambiare e di mettersi in gioco, in cui a crescere e a realizzarsi non è solo Rudy ma tutta la famiglia attraverso un processo trasformativo che la porterà a cambiare pelle, ad uscire da quel bozzolo tanto protettivo quanto “limitante” in cui era rimasta aggrovigliata.

Proprio il lieto fine, porta ad un ulteriore considerazione. La famiglia dopo varie incertezze e crisi troverà la sua strada e questo non sorprende lo spettatore sembrando il giusto finale, quello atteso e sperato. Un finale che ci porta a riflettere, sulla scia di quanto ci ha insegnato Minuchin, su quanto questa famiglia che, ad un primo sguardo sembrava avere una struttura rigida e impermeabile, trova poi in sé le risorse che le permettono di modificarsi quando questo si rende necessario. L’ironia, la presenza, l’amore e il calore che circola in questo nucleo se da una parte lega e stringe, dall’altra da coraggio e forza, diventa slancio vitale.

La ri-soluzione quindi emerge grazie al contributo e al cambiamento di tutti e mette il focus, volendo fare un parallelismo con il processo terapeutico, su quanto può essere importante, a volte fondamentale, per favorire l’individuazione dei figli il contributo della famiglia, la legittimazione della crescita da parte dei genitori; quel contributo che così bene Canevaro ha rappresentato e ritualizzato in terapia con la sua attività dello “zaino”, come modo per i genitori di aiutare i figli a “spiccare il volo”, attraverso lo scambio di doni reciproci nella convinzione che, come recita un proverbio canadese: due cose possono regalare i genitori ai figli, “ ali e radici” e che l’una non può prescindere dall’altra.